“La nostra vita emotiva mappa la nostra incompletezza “, ha scritto la filosofa Martha Nussbaum nella sua luminosa lettera di consigli ai giovani. “Una creatura senza bisogni non avrebbe mai motivi per paura, dolore, speranza o rabbia.” La rabbia, infatti, è una delle emozioni che giudichiamo più duramente – negli altri, così come in noi stessi – e tuttavia la comprensione della rabbia è fondamentale per mappare il paesaggio delle nostre vite interiori. Aristotele, nel piantare il seme della civiltà per la saggezza pratica, lo riconobbe quando chiedeva se la rabbia è “buona” o “cattiva”, e come deve essere usata: diretta a chi, manifestata come, per quanto tempo e fino a che punto.

Questa sottovalutata qualità di rabbia per la mappatura delle anime è ciò che il poeta e filosofo inglese David Whyte esplora in una sezione di Consolazioni: il sollievo, il nutrimento e il significato sottostante delle parole comuni., https://www.amazon.it/exec/obidos/ASIN/1932887369/petewill04-21

Molte delle meditazioni di Whyte invertono la comprensione comune di ogni parola e staccano la superficie per rivelare il significato più profondo, spesso controintuitivo – In nessun altro luogo più che nel suo saggio sulla rabbia. Whyte scrive:

La rabbia è la forma più profonda di compassione, per un altro, per il mondo, per il sé, per una vita, per il corpo, per una famiglia e per tutti i nostri ideali, tutti vulnerabili e tutti, forse in procinto di essere feriti. Spogliata della prigionia fisica e della reazione violenta, la rabbia è la forma più pura di cura, la fiamma vivente interna della rabbia illumina sempre a che cosa apparteniamo, ciò che desideriamo proteggere e ciò di cui siamo disposti a rischiare di noi stessi. Ciò che di solito chiamiamo rabbia è solo ciò che rimane della sua essenza quando siamo sopraffatti dalla sua vulnerabilità, quando raggiunge la superficie perduta della nostra mente o l’incapacità del nostro corpo a tenerla, o quando tocca i limiti della nostra comprensione.

What we name as anger is actually only the incoherent physical incapacity to sustain this deep form of care in our outer daily life; the unwillingness to be large enough and generous enough to hold what we love helplessly in our bodies or our mind with the clarity and breadth of our whole being.

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